Uccidere la morte

Uccidere la morte

Michele Smargiassi

 

Non è morta, la morte. Non siamo riusciti ad ammazzarla. Solo a negarla, a disprezzarla, a ignorarla, a farle terra bruciata attorno sperando che morisse, la morte, riducendola alla fame. Non abbiamo ammazzato la morte ma la vista della morte, la materialità della morte, la voce della morte nelle nostre vite quotidiane. La morte resta, ma noi abbiamo evacuato i suoi dintorni.

 

Non si può ammazzare la morte. Si può ammazzare solo la vita. Pensando di ammazzare la morte abbiamo invece ammazzato il lutto, che è la parte della morte che resta ai vivi, che serve ai vivi. Il lutto è il vero ammazza-morte, lo è da sempre, è il lutto che ci fece diversi dalle scimmie pre-umane: dove c’è una sepoltura, dove c’è la premura del compianto, la cura della perdita, c’è sicuramente uomo e non animale.

 

Ma abbiamo ammazzato il lutto, e non la morte, cioè abbiamo eliminato la medicina anziché la malattia. E adesso il lutto ci manca, adesso portiamo il lutto per la perdita del lutto, e naturalmente non sappiamo come si fa, non abbiamo più i modelli, gli stampi del lutto. Facciamo confusione. Crediamo che il lutto sia l’addio. Pensiamo che basti celebrare bene l’addio per scrollarci di dosso la morte che il morto ci lascia, pensiamo che un buon addio allontani il contagio della morte.

 

Ma il lutto non è un addio, il lutto è quel che resta dopo l’addio, è la convalescenza dalla morte degli altri, il lutto non è un momento, è una durata, è una quarantena delle emozioni, è il pagamento a suon di ore e di giorni di un pedaggio con il quale ci ricomperiamo il diritto a vivere. Il lutto non può essere eterno, perché se lo fosse la morte lo avrebbe contaminato. Ma non può essere neppure istantaneo, perché la vita ha bisogno di tempo per ritrovarsi. Il lutto è un meccanismo di salvezza collettiva che la specie umana mette a disposizione dell’individuo. Altrimenti ogni morte individuale trascinerebbe con sé il destino di tutta l’umanità. Solo il lutto può farci scavalcare i morti, solo il lutto impedisce al morto di afferrare il vivo.

 

Il lutto è un diario del dolore. Ha bisogno di una narrazione. Tutte le religioni, e molte filosofie, non sono state altro, al fondo, che narrazioni di viaggio. Perché non è il morto che parte per un lungo viaggio, è chi resta che parte davvero. Ma tutte quelle narrazioni, mappe stradali, segnaletiche preziose, precetti meticolosi da seguire obbedienti e senza pensare, itinerari già fatti, package tour della consolazione, tutte quelle narrazioni le abbiamo uccise, pensando di uccidere la morte. Abbiamo affondato la nave per affogarne il comandante, ma i passeggeri di quella nave eravamo noi.

 

Abbiamo cercato allora una nuova narrazione, un’altra nave, una nave che non abbia bisogno di farci traversare il mare del dolore e della morte, una nave che non ha neppure bisogno di partire, una nave che anzi ci dispensa dal partire. Abbiamo rivendicato il diritto di non partire. Abbiamo chiesto alla scienza, alla medicina, di non farci più morire. Abbiamo cambiato la missione del medico: il suo dovere ora non è di curarci, ma di guarirci. Ora un medico che non guarisce è un medico che ha fallito. Possiamo denunciarlo per incapacità. La morte è diventata una mancanza professionale. La morte è un incidente oltraggioso, un torto, un sopruso sociale di cui qualcuno (un umano, non più l’Unico che ne è il vero ultimo responsabile) dovrà renderci conto, perfino in tribunale.

 

Ma i giudici non resuscitano i morti. Quando la morte arriva, è lì, e ha i nostri occhi. E dobbiamo pur farne qualcosa. Dobbiamo trovarle un posto, se non un senso. Dobbiamo farle spazio: quello spazio che volevamo negarle, negato, lei continua a pretenderlo. E noi siamo disarmati di fronte a questa richiesta, perché abbiamo ucciso il lutto e le sue narrazioni, e non ne abbiamo altre di riserva.

 

Ci restano solo, fumanti e inefficaci, le nostre misere armi del delitto, il delitto inutile che abbiamo compiuto. Le armi della tecnologia, del denaro, della delega, della rimozione. Bene, allora faremo con quelle armi. Con cui non si costruisce più il lutto, che cura la vita. Ma possiamo ricavare almeno l’addio, che scioglie il nodo gordiano del dolore, possiamo provare a gestire il distacco con un colpo di forbice. Al lutto che accompagna, abbiamo sostituito la partenza che tronca. Al lenimento del dolore che sfuma, che viene digerito, metabolizzato dalla vita che riprende forza, abbiamo sostituito il commiato che separa di colpo: ora ci sei, ecco ora sei già partito.

 

«Sono solo un capostazione: gestisco partenze», si schermiva Gianni Gibellini, imprenditore degli addii da mezzo secolo, quando inaugurò quello smagliante, luminoso hub dell’estremo saluto che ha chiamato Terracielo, e forse non si rendeva conto di quanto fosse appropriata la metafora. Benché, ad essere sinceri, la prima funeral home d’Italia somigli molto meno a una stazioncina di provincia che a un aeroporto. Non camere ardenti ma eleganti salotti da business lounge, poltrone Le Corbusier e schermi al plasma in anticamera, c’è una sorta di reparto fitness per la ‘tanatoestetica’ del caro estinto, e nell’attesa caffè e ristorante esclusivi; non una sala del pianto ma un cinema da 700 posti con platea, galleria, schermo per proiezioni di foto e filmati sul defunto, wi-fi e diretta web del funerale, pianoforte a coda, organo e arpa; non un chiostro del silenzio ma una hall con cascatella e ulivo dove cerchi il tuo defunto sul display elettronico come cercheresti il gate del tuo volo: «Sig. Caio, sala numero 7».

 

Del resto, questa è l’idea: si viene qui per accompagnare il caro estinto all’ultimo decollo, come la buona educazione impone quando in famiglia qualcuno parte per un viaggio. Si viene qui perché si capisce, confusamente, che l’addio è più straziante e incompiuto se si dà in casa, chi parte va accompagnato alla partenza, fino all’ultimo momento, va salutato col fazzoletto dalla banchina del porto, dal marciapiede della stazione, fin quando è la nave o l’aereo o il treno che ce lo portano via, e non abbiamo più il potere di fermarli, e ci sembra allora che siano loro a partire, e non noi a lasciarli andare. Si può anche accennare a una piccola rincorsa del vagone che si mette in moto, una finta, una piccola commedia del «… vedi, non volevo, non è colpa mia se te ne vai».

Ancora una volta Gibellini ha ragione più di quanto pensi: «Ho voluto dare dignità pubblica a riti finora confinati nel privato, e a quelli costretti a vagare senza tetto. Non riuscivo più a vedere certi addii sbrigati in un parcheggio o nel corridoio di un obitorio». Nessuno riusciva più a sopportarli, quei riti senza tetto né legge, per quanto siamo diventati individualisti, la nostra cultura intera si ribella al funerale homeless. Ma sono sempre più numerosi i funerali senza chiesa, i funerali atei, agnostici o di religioni non domiciliate, che fuggono a gambe levate da certe ‘sale del commiato’ aconfessionali, anche là dove sono state aperte, autorizzate da una recente legge, ma spesso così squallide che aggiungono tristezza a tristezza.

 

Qui è tutta un’altra musica, letteralmente: nelle salette profumate dai nomi soavi, Sala delle palme, Sala delle stelle, aleggia rock garbatamente allusivo, Knockin’ on heaven’s door, Stairway to heaven, «ma chiunque può portare la sua musica, le sue foto, i suoi simboli», così come il ristorante da 70 coperti, a disposizione degli inconsolabili sì, ma pur sempre ancora vivi e affamati, può variare il menù a piacere, dal cous-cous al kosher. Arte genericamente dolente (fiammelle, legni contorti) alle pareti, solo in una delle nove salette c’è un crocifisso ligneo (Settecento trentino), mentre quello nel salone-cinema può sparire in pochi attimi.

 

La cifra del luogo è proprio questa: non averne una, azzerare tutte le connotazioni narrative del lutto, non solo quelle religiose ma anche quelle culturali, portandole al grado zero di un paesaggio da non-luogo (per una volta si può usare appropriatamente questa espressione decaduta nel banale), uno spazio simile a tutti i luoghi di passaggio della contemporaneità. Spazio neutro, connotabile a piacere (l’imam ha già approvato). Compianto on demand.

 

Troppo finto, troppo televisivo, tutto questo? Certo, tra superfici levigate e lampade di design si respira aria da Six Feet Under, il serial funerario che spopolò negli Usa. Ma fermarsi a questa evidente, però superficiale apparenza di consumismo non ci fa capire cosa significa davvero l’opportunità di tornare a soddisfare il bisogno ancestrale di un addio, ma un addio senza simboli forti, un addio postmoderno e destrutturato, una partenza senza arrivo. È forse l’inizio di un’inedita antropologia minimalista dell’ultimo saluto quella che Francesco Cocco ha iniziato a descrivere, quando è stato ammesso, osservatore impassibile, alla luminosità lucida e specchiante di queste sale, alla pulizia maniacale dei retroscena che sembra alludere più alla disinfezione della coscienza che dei batteri.

 

È sfolgorante, abbacinante la cura della morte in queste immagini. Cocco è un fotografo d’ombre profonde, ma questa volta ribalta la sua cifra di stile, perché la nuova morte non può essere buia. Il lutto è nero come una lunga galleria, l’addio dev’essere abbagliante come un flash. Funzionari della luce, senza volto umano, toccano senza toccare, manipolano con rispetto senza affetto, presenze angeliche atarassiche e dis-umanizzate. Affidati a loro, i corpi dei partenti non sono già più nostri. L’addio vero e proprio si consuma così, prima del momento della partenza vera, prima del commiato vero, nel gesto stesso con cui si consegnano quei corpi alla struttura che li ‘lavora’ con procedurale sapiente an-emotiva premura. Delega delle cure del commiato, che erano l’ultimo contatto fisico, l’ultima carezza, con la scusa che bisogna ricorrere a competenze professionali, che è meglio «lasciar fare a chi sa fare», che «pensano loro a tutto quanto». A questa sbrigatività ‘inevitabile’ abbiamo chiesto di rimpiazzare le penose ma lenitive lunghezze del distacco.

 

Alluminio, acciaio inox, candidi manti, plastiche e vetri, sono forme diverse di schermo, superfici di non-contatto. Una dolente tocca con la mano lo schermo al plasma che mostra l’ingresso della bara del suo caro nel forno crematorio: è un gesto tenero, commovente, ma è come il muto saluto a distanza che ci si scambia con l’amico in partenza, attraverso il vetro antiproiettile del gate d’imbarco dell’aeroporto.

 

Eppure, questi corpi, gli unici corpi che il fotografo ci mostra nella loro spoglia carnalità, sono veri, i loro volti sono gli unici umani. Rughe, mani di cera, volti come maschere: sono povere membra di morti, ma sono la cosa più viva, forse l’unica cosa viva nell’astronave abbagliante dell’addio. Quei corpi sono un grido di vita, urlano il vero, irriducibile scandalo della morte, alla quale neanche questa volta, neanche in questo modo, siamo riusciti a impedire di sbattere in faccia ad ogni uomo e ad ogni dio la propria inspiegabile, intollerabile, crudele necessità.